Tradizione ebraica moderna/Capitolo 7

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Leo Strauss in New York nel 1939

Leo Strauss e il pensiero ebraico moderno[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Leo Strauss.

I believe I can say, without any exaggeration, that since a very very
early time the main theme of my reflections has been what is called
the “Jewish Question”. [1]

Copertina della rivista Der Jude di Martin Buber, 1918
Copertina della rivista Der Jude di Martin Buber, 1918

Leo Strauss fu un pensatore ebreo moderno? Era questa una categoria riconosciuta da Strauss? La domanda non è vana. Non è ovvio che Strauss appartenga al canone dei pensatori ebrei moderni in cui ci si potrebbe aspettare di trovare nomi come Hermann Cohen, Franz Rosenzweig, Martin Buber, Gershom Scholem ed Emmanuel Levinas. Il suo lavoro si occupava tipicamente della tradizione filosofica piuttosto che di quella ebraica. I suoi studi su pensatori e temi ebrei occupano una parte relativamente piccola del suo corpus totale di scritti. E il suo libro più importante (o almeno il più letto), Natural Right and History (Diritto naturale e storia), non contiene quasi nulla su un qualsiasi argomento ebraico. Date queste considerazioni, quale contributo dà Strauss al pensiero ebraico moderno?[2]

Prima di provare a rispondere a queste domande, un po' di biografia.[3] Leo Strauss nacque nel 1899 nel villaggio assiano di Kirchhain. Crebbe in una famiglia ebraica osservante, dove in seguito notò che le leggi ebraiche “were rather strictly observed”. Dopo essersi diplomato al Gymnasium umanistico e aver prestato servizio brevemente nella Prima guerra mondiale, Strauss frequentò l'Università di Marburgo che allora era il centro del revival neokantiano ispirato da Hermann Cohen. Strauss conseguì il dottorato presso l'Università di Amburgo nel 1921, dove preparò una tesi sotto la direzione di Ernst Cassirer. Un anno dopo trascorse un periodo post-laurea a Friburgo, dove studiò con Edmund Husserl. Fu durante quest'anno che Strauss ascoltò per la prima volta lo studente di Husserl, Martin Heidegger, che lasciò su di lui un’impressione profonda, durata tutta la vita.

Strauss lavorò come assistente ricercatore presso l'Accademia di Studi Ebraici di Berlino dal 1925 al 1932, dove i suoi compiti principali erano quello di assistere nella redazione dell'edizione accademica giubilare delle opere di Moses Mendelssohn. Durante questo periodo, Strauss pubblicò alcuni dei suoi primi scritti sul sionismo e altri temi ebraici nella rivista Der Jude di Martin Buber e nel periodico Jüdische Rundschau. Il suo primo libro Die Religionskritik Spinozas [Spinoza's Critique of Religion] (1930) fu dedicato alla memoria di Franz Rosenzweig, morto l'anno prima della sua pubblicazione.

Strauss lasciò la Germania nel 1932 sotto gli auspici di una borsa di studio della Fondazione Rockefeller e trascorse un anno a Parigi prima di trasferirsi in Inghilterra. Lì scrisse un libro su Maimonide e i suoi predecessori intitolato Philosophie und Gesetz [Philosophy and Law] (1935) e un libro sulla filosofia politica di Hobbes, The Political Philosophy of Hobbes: Its Basis and Its Genesis (1936). Incapace di trovare un posto fisso in Inghilterra, Strauss emigrò in America nel 1938, dove si unì alla facoltà della New School for Social Research, che allora era un rifugio per gli accademici in esilio dalla Germania di Hitler. Gli anni di Strauss nella New School furono un periodo straordinariamente produttivo nella sua vita in cui – stiamo ora iniziando a capire pienamente – le sue idee principali iniziarono a germogliare. Fu lì che Strauss divenne per la prima volta uno “Straussian”.[4]

Nel 1949, Strauss accettò un posto presso l'Università di Chicago, dove trascorse quasi vent'anni e dove scrisse i suoi libri più importanti: Persecution and the Art of Writing (1952), Natural Right and History (1953), Thoughts on Machiavelli (1958), e What is Political Philosophy? (1959). Fu durante gli anni di Chicago che Strauss esercitò la sua maggiore influenza e attirò un notevole gruppo di studenti. Su invito di Gershom Scholem trascorse un anno all'Università Ebraica di Gerusalemme, ma per il resto si dedicò quasi esclusivamente all'insegnamento e alla scrittura. Le sue opere successive si concentrarono sempre più sulla filosofia politica antica, in particolare su Platone, Senofonte, Aristotele e Tucidide. Dopo il suo pensionamento, Strauss trascorse i suoi ultimi anni ad Annapolis, nel Maryland, dove andò a raggiungere il suo vecchio amico Jacob Klein nella facoltà del St. John's College. La sua ultima opera completata, The Argument and Action of Plato’s Laws (1975), fu pubblicata due anni dopo la sua morte. Dopo la sua morte sono stati pubblicati diversi volumi di saggi, conferenze e una consistente corrispondenza filosofica precedentemente non raccolta. Il suo lavoro, sempre controverso, ha continuato a generare dibattito, probabilmente più oggi che durante la sua vita. Rimane un notevole monumento alla ricerca e alla filosofia del XX secolo.

Il problema teologico-politico[modifica]

Strauss fu un prodotto dei suoi tempi. Cos'altro poteva essere? Nella prefazione del 1965 alla traduzione inglese di Spinoza's Critique of Religion, egli descrive il suo contesto come quello di "a young Jew born and raised in Germany who found himself in the grip of the theologico-political predicament".[5] La descrizione che Strauss fa di se stesso sia come tedesco che come ebreo definisce i parametri precisi di questa situazione difficile. Il problema teologico-politico doveva descrivere la difficile situazione degli ebrei tedeschi, ma non vi si limitava.

Politicamente parlando, la Germania della prima età adulta di Strauss era la Repubblica di Weimar. Weimar era una democrazia liberale creata sulla scia della sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale. Fu il tentativo di Weimar di trovare un tenue equilibrio tra l'adesione ai principi liberali della Rivoluzione francese e le tradizioni più profonde della Germania che spiegavano la sua debolezza. In Germania il liberalismo fu più debole, o almeno arrivò più tardi che in molti altri stati europei. Questa debolezza spiega l’incapacità di Weimar di proteggere la sua minoranza più vulnerabile, i suoi cittadini ebrei. Soprattutto l'ebraismo tedesco dovette la sua emancipazione a Weimar. Non è una coincidenza che l'attacco a Weimar sia da parte della sinistra che della destra sia stato un attacco contro gli ebrei tedeschi. Il fallimento di Weimar finì per rappresentare per Strauss un fallimento endemico del liberalismo.

Teologicamente parlando, la difficile situazione di Strauss dipendeva dalla forma che l'ebraismo avrebbe assunto in una repubblica liberale. Gli ebrei tedeschi, forse più degli ebrei di qualsiasi altra nazione, si sposarono con il destino del liberalismo moderno. Il risultato, come lo analizzò Strauss, fu un'arma a doppio taglio. Il trionfo della democrazia liberale portava all'uguaglianza civile, alla tolleranza e alla fine delle peggiori forme di persecuzione, anche se non di tutte le forme di discriminazione privata. Tuttavia, allo stesso tempo, il liberalismo richiede che l'ebraismo – come richiede a tutte le fedi – subisca la privatizzazione del credo, la relegazione della legge ebraica da un'autorità comunitaria ai confini della coscienza individuale. Probabilmente, ciò impone all'ebraismo richieste più dure che a molte altre religioni. L'ebraismo si intende in primo luogo non come una fede o un insieme di credenze, ma come un insieme di leggi destinate a regolare la vita sociale e politica. Il principio liberale della separazione tra Stato e società, tra vita pubblica e credo privato, non poteva che sfociare nella “protestantizzazione” dell'ebraismo.

Strauss affronta la condizione dell'ebraismo tedesco così come plasmato dall'Illuminismo nell'introduzione al suo Philosophy and Law.[6] Con il termine "Illuminismo", Strauss intende gli sforzi di quegli scrittori del XVII e XVIII secolo come Hobbes, Spinoza, Bayle e Voltaire per rovesciare i sistemi imperanti dell'ortodossia, o quello che Hobbes chiamava significativamente “the kingdom of darkness”. Gli autori di questi trattati teologico-politici attaccarono non solo gli abusi religiosi del clero – non erano soltanto riformatori religiosi – ma i fondamenti stessi, le “radici” della legge. La strategia dell'Illuminismo consisteva nel trasformare la religione da vincolo universale della società e della moralità in una questione essenzialmente privata. Questa strategia non deve necessariamente portare all'estirpazione della religione, ma alla “interiorizzazione” dei concetti fondamentali dell'ortodossia – rivelazione, miracoli, creazione. Questo processo di interiorizzazione o privatizzazione aveva lo scopo di privare la religione storica o positiva del suo significato tradizionale, isolandola, mettendola, per così dire, in una zona di “cultura” indipendente.

La disputa tra l'ortodossia e l'Illuminismo – un'anticipazione del successivo interesse di Strauss per la disputa tra Antichi e Moderni – diede luogo a vari tentativi retroguardia di preservare la religione in una veste moderna. Jerusalem (1783) di Moses Mendelssohn, tentò di costruire un ebraismo riconducibile alla filosofia, un ebraismo razionale o, come lo chiamerà in seguito Hermann Cohen, “a religion of reason from out of the sources of Judaism”. Ciò che Mendelssohn fece per l'ebraismo, Kant lo tentò per il protestantesimo, ovvero modellare una Religione entro i limiti della semplice ragione (1793). Questi vari tentativi di mediare o conciliare le differenze tra ortodossia e Illuminismo, il cui massimo esponente fu Hegel, finirono col tempo per apparire sempre più esili e poco convincenti. “Deve necessariamente restare così”, Scrive Strauss: "It must necessarily remain the case that not just every compromise but also every synthesis between the opposed position of orthodoxy and Enlightenment proves to be untenable".[7] Perché?

Strauss era intellettualmente e caratterialmente un divisore, non un raggruppatore. Credeva nel mantenere vive alcune distinzioni fondamentali e rimaneva profondamente sospettoso nei confronti dei tentativi di colmare il divario o di trovare una via di mezzo tra punti di vista e modi di vita intrinsecamente inconciliabili. Come dirà molto più tardi: "There are many people who believe that there can be a happy synthesis which is superior to the isolated elements: Bible on the one hand, philosophy on the other. This is impossible. Syntheses always sacrifice the decisive claim of one of the two elements".[8] Il tentativo di sintetizzare le pretese della ragione e della rivelazione non poteva che portare a confondere importanti differenze, sia nella subordinazione della teologia alla filosofia, sia nella trasformazione della teologia in una fede privata separata dal carattere autoritativo della legge. In entrambi i casi, una parte verrebbe sacrificata all'altra. Lo sforzo illuminista di privare la religione del suo carattere pubblico o legale non poteva che sfociare in un'asfissia teologica. E afferma: "These reconciliations always work ultimately as vehicles of the Enlightenment, not as dams against it".[9]

C’è una ragione più profonda per la resistenza di Strauss alla critica illuminista dell'ortodossia. L'Illuminismo, almeno nella sua forma spinozistica, prende le mosse dal principio di autosufficienza della ragione. Per “autosufficienza della ragione” si intende la convinzione che la ragione sola sia sufficiente a renderci autonomi, padroni e possessori della natura. Ma la fede nell'autosufficienza razionale è proprio questa: una fede. Non è meno fede che ortodossia. Ateismo e ortodossia sono ugualmente sistemi di credenze che non possono né capirsi né confutarsi a vicenda. Strauss concluse che la tradizione filosofica aveva fallito nel suo tentativo di confutare la possibilità della rivelazione. Il suo ricorso alla derisione e al ridicolo forniva almeno una “prova indiretta” del fallimento di questa nel penetrare la testa di ponte dell'ortodossia. La rivelazione rimane una possibilità, e quindi una questione aperta. L'attacco “napoleonico” dell'Illuminismo alla rivelazione fu respinto dalle successive ondate di teologia contro-illuminista e dalla richiesta di un ritorno all'ortodossia.[10]

Il conflitto tra ortodossia e Illuminismo venne messo in crisi da Nietzsche con la sua richiesta di onestà o probità (Redlichkeit).[11] Nietzsche dimostrò la necessità di scegliere tra l'ortodossia e un ateismo risoluto. L'onestà intellettuale rende chiaro che i vari sforzi per conciliare ortodossia e Illuminismo hanno dimostrato un cedimento di nervi, una tendenza all'autoinganno e un rifiuto "to endure fearful truth". È questa impasse che definisce la situazione dell'ebreo moderno:

« For a Jew who cannot be orthodox and must hold unconditional political Zionism (the only possible ‘solution to the Jewish problem’ on the basis of atheism) to be a highly honorable but in the long and serious run unsatisfactory answer, the situation created by that alternative, the contemporary situation, seems to allow no way out. »
(Strauss, Philosophy and Law, 19)

Potrebbe sembrare che qui Strauss stia descrivendo se stesso e la propria situazione. Sappiamo da lettere e altre fonti che Strauss aveva già cessato di essere un ebreo osservante.[12] Tuttavia, la sua affermazione secondo cui la situazione affrontata dall'ebraismo contemporaneo "seems to allow no way out", suggerisce che questa non è un'autodescrizione. L'impasse è più apparente che reale. L'obbligo di scegliere tra ortodossia e ateismo è necessario se e solo se la situazione descritta da Nietzsche e dall'Illuminismo è l'unica possibile. Ma cosa succederebbe se la critica dell'Illuminismo all'ortodossia avesse fallito? Potrebbe essere possibile un ritorno al primo Illuminismo premoderno rappresentato da Maimonide? In altre parole, l'Illuminismo deve essere un Illuminismo moderno? Strauss era consapevole che l'idea di un ritorno a un antico Illuminismo premoderno sarebbe apparsa ai suoi contemporanei come impossibile o assurda o forse entrambe le cose, eppure l'idea cominciò a nascere in lui. Come disse trent’anni dopo, divenne necessario chiedersi "whether what seems to be an impossibility is in fact only a very great difficulty".[13]

Gerusalemme o Atene?[modifica]

La situazione degli ebrei tedeschi era un'espressione locale, seppure vivida, di un tema che avrebbe occupato l'intera opera di Strauss. Si riferisce metaforicamente a questo tema con i nomi Gerusalemme e Atene.[14] Vediamo cosa implicano questi due nomi.

Strauss descrive a intermittenza queste due città e ciò che rappresentano come il “nucleo” o il “nervo” della tradizione occidentale. Il conflitto tra la fede biblica e la filosofia greca sarebbe la “caratteristica dell’Occidente” e “il segreto della sua vitalità”. La Bibbia e la filosofia rappresentano due “codici” o modi di vita fondamentalmente diversi che sfidano la riconciliazione finale.[15]

Atene significa per Strauss la città della filosofia, la città filosofica. Per sua natura, la filosofia è il tentativo di comprendere il tutto, tutto ciò che è, per mezzo della sola ragione. La filosofia deve sottomettere – e sottomettere spietatamente – tutto alla barra della razionalità critica. È stata questa enfasi sulla ragione, la “vita esaminata” nel linguaggio socratico, che ha portato la filosofia a credere che la contemplazione sia la vita più alta per un essere umano. La filosofia nasce solo con la scoperta della “natura” o delle essenze. Indagare sulla natura delle cose significa interrogarsi sulle loro cause o principi. Strauss ama ricordare ai suoi lettori che non esiste una parola per natura nell'ebraico biblico che si avvicini alla physis (φύσις)) greca. Il mishpat ebraico che indica “via” o “consuetudine” è tutt’al più un’anticipazione pre-filosofica della natura.[16]

Gerusalemme, al contrario, rappresenta la città santa, la città della fede. Il pensiero biblico non inizia dall'esperienza della curiosità intellettuale ma da un senso di stupore o timore del Signore. Secondo la Bibbia, la vita umana è caratterizzata non dall'autosufficienza intellettuale ma dal senso della nostra radicale dipendenza da Dio. Non la contemplazione, ma la pietà, l'obbedienza e l'amore sono i poteri umani più alti. Il Dio della Bibbia – qualunque cosa Egli possa essere – non è il Dio di Aristotele. Il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non è il Motore Immobile.[17]

Fin dall'inizio, le differenze tra Gerusalemme e Atene esprimevano due modi di vita fondamentalmente diversi. Queste differenze sono basilarmente politiche, una questione di autorità politica. L'autorità dipende, in definitiva, dalla ragione umana o dalla rivelazione come guida fondamentale alla vita?[18] La filosofia, rappresentata da Socrate, trova la sua sede naturale nella città o polis. La filosofia presuppone un contesto di urbanità, ricchezza e svago per sostenerla. La vita di semplice pietà o di umile rispetto esaltata dalla Bibbia è inequivocabilmente a favore della vita pastorale. Secondo la Bibbia il primo omicida fu anche il fondatore della prima città e delle arti necessarie al suo sostentamento. Non è un caso che non sia stato Caino, il coltivatore della terra, ma Abele, il pastore delle pecore, a trovare grazia agli occhi di Dio.[19]

A dire il vero, Strauss non è ignaro delle profonde aree di accordo tra Gerusalemme e Atene. Sebbene Strauss scriva spesso di Gerusalemme e Atene come di due alternative incompatibili, le presenta anche come due rami dello stesso albero che si sono nutriti e sostenuti a vicenda. Esiste, afferma, un ampio accordo riguardo al posto della moralità nell'economia complessiva della vita. Il locus della moralità sia per la filosofia greca che per la Bibbia si trova nella famiglia patriarcale. Ed entrambe concordano sul fatto che il nucleo della moralità è la giustizia supportata da una qualche nozione di sanzione divina. In effetti, Strauss sostiene che ciò che Platone dice riguardo al potere della punizione divina in Leggi è “virtualmente identico” a certi versetti di Amos e del Salmi 139.[20]

È naturale chiedersi quale fosse la posizione di Strauss. Era cittadino di Gerusalemme o di Atene? Dove risiedevano le sue lealtà fondamentali? Strauss giocò le sue carte in tutto riserbo. Le sue letture approfondite di vari testi sia della tradizione filosofica che teologica sono state spesso chiamate "talmudiche", generalmente da persone che sanno poco del Talmud. Ciò che è vero è che leggeva le opere filosofiche come se fossero testi sacri e i testi sacri come opere filosofiche. Trattò i capitoli iniziali della Genesi come se fossero compagni del Timeo di Platone.

La risposta di Strauss a questa situazione non è scegliere da una parte o dall'altra, ma mantenere un pieno e libero riconoscimento di queste due rivendicazioni contrastanti sulla nostra fedeltà. La storia occidentale è piena di esempi di lealtà contrastanti e di sforzi per conciliare fede e ragione. Non è necessario ripetere questa storia. Strauss consiglia ai suoi lettori che è più necessario che mai rimanere sensibili sia a Gerusalemme che ad Atene senza diventare esclusivamente un partigiano di nessuna delle due:

« No one can be both a philosopher and a theologian, nor, for that matter, some possibility which transcends the conflict between philosophy and theology, or pretends to be a synthesis of both. But every one of us can be and ought to be either one or the other, the philosopher open to the challenge of theology or the theologian open to the challenge of philosophy. »
(Strauss, “Progress or Return,” 116)

La risposta di Strauss alla sua situazione teologico-politica che a suo tempo sembrava non offrire “nessuna via d’uscita” fu in realtà quella di mantenere una viva consapevolezza del potere sia di Gerusalemme che di Atene senza diventare cittadino di nessuna delle due fazioni. Non si tratta di optare per l'una o per l'altra, né per l'ortodossia né per l'ateismo. Tutte queste decisioni si basano su premesse arbitrarie o scelte volontarie che resistono alla giustificazione ultima. Forse la convinzione di Strauss che i nostri impegni richiedano in definitiva una giustificazione razionale implica che in ultima analisi avesse optato per Atene. Oppure, altrettanto probabilmente, la sua convinzione che tali impegni non possano mai essere pienamente giustificati e rimangano necessariamente un atto di fede suggerisce la vittoria di Gerusalemme. In entrambi i casi, piuttosto che optare per soluzioni facili, Strauss preferì una vita di esilio permanente sia da Gerusalemme che da Atene – forse simile allo Straniero ateniese in Leggi di Platone. Trovandosi in America, potrebbe aver creduto di essere invece sbarcato a Creta!

Il Caso Spinoza[modifica]

Per approfondire, vedi Baruch Spinoza.

Quando Strauss pubblicò il suo Die Religionskritik Spinozas, il mondo ebraico era alle prese con i preparativi per la commemorazione, nel 1932, del terzo centenario della nascita di Spinoza. In tutta Europa e in Palestina furono pianificati eventi per dare il benvenuto a Spinoza tra le braccia della storia ebraica. Per molti dei partecipanti a questo evento, si trattava di un’opportunità senza precedenti per rimediare a quella che era vista come una profonda ingiustizia storica, vale a dire la scomunica di Spinoza dalla comunità sefardita di Amsterdam e dal mondo ebraico più in generale. La riabilitazione di Spinoza, ovviamente, era in corso da più di un secolo. A partire dall'ultimo quarto del diciottesimo secolo, Spinoza fu canonizzato dai romantici tedeschi come “l'uomo ebbro di Dio”, e nel primo terzo del diciannovesimo secolo venne trattato dalla comunità ebraica tedesca come un precursore della mentalità liberale e cosmopolita, "“man-in-general". Spinoza poteva sì esser visto come un eretico, ma era pur sempre un eretico ebreo, e le sue eresie erano viste come passi vitali verso l'era dell'emancipazione. In questa festa comunitaria – ironicamente alla vigilia dell'ascesa al potere di Hitler – Strauss lanciò una bomba.[21]

L'intervento di Strauss nella controversia su Spinoza fu in parte una risposta al lavoro dell'anziano Hermann Cohen (1842-1918) che aveva continuato una vecchia linea di critica a Spinoza ritenendolo colpevole di un “tradimento umanamente incomprensibile” dell'ebraismo. Cohen, che era stato uno dei primi modelli per Strauss (“the center of attraction for philosophically minded Jews”),[22] aveva criticato Spinoza per tutta la sua lunga carriera, ma fu solo nella sua vecchiaia che i suoi scritti assunsero un carattere amaro e ad hominem. Spinoza fu condannato come traditore e falsificatore del suo stesso popolo. Questo per Cohen era un peccato particolarmente grave poiché dimostrava una mancanza di fedeltà. È la lealtà verso la famiglia, gli amici e la tradizione religiosa a costituire una delle virtù cruciali nella comprensione dell'ebraismo da parte di Cohen, e ciò spiega la sua avversione verso Spinoza. Il tradimento di Spinoza consistette tra le altre cose nella sua denigrazione dei profeti, nella sua identificazione tra Dio e natura (deus sive natura) che portò a una dottrina di “might makes right”, e nel suo trattamento dell'ebraismo come una religione puramente nazionale o politica. La descrizione fatta da Spinoza dell'ebraismo come religione civica, sosteneva Cohen, era basata su una profonda incomprensione dell'universalismo dell'idea monoteistica come anche dell’idealismo etico dei profeti. La caricatura fuorviante dell'ebraismo come legislazione puramente civile, sostiene Cohen, fu deliberatamente costruita per negare il suo contenuto etico. Forse la cosa più pericolosa è che Cohen affermò che Spinoza aveva creato alcuni stereotipi negativi sull'ebraismo e sulla religione biblica che in seguito avrebbero influenzato Kant, che dipendeva dalla ricerca di Spinoza. Spinoza è quindi accusato di essere il principale “prosecutor” dell'ebraismo davanti a un mondo gentile ostile.[23]

Strauss dedicò un lungo saggio intitolato “Cohens Analyse der Bibel-Wissenschaft Spinozas” (1924) sia per attaccare che per approfondire il caso di Cohen contro Spinoza.[24] Strauss difende Spinoza dalle accuse di Cohen sostenendo a lungo che la critica di Spinoza all'ebraismo non era mossa né da malizia né da animosità contro il popolo ebraico, ma derivava dalle “condizioni oggettive” dell'Olanda del diciassettesimo secolo. Cohen non riuscì a vedere le forze di persecuzione prevalenti al tempo di Spinoza. Di conseguenza, "he understood Spinoza too literally, because he did not read him literally enough".[25] Strauss dedica gran parte della sua analisi a dimostrare che i motivi per cui Spinoza scrisse il Trattato teologico-politico non possono essere dedotti dai fatti biografici della sua scomunica o da qualche desiderio psicologico di vendetta, ma derivano dal suo desiderio di liberare la filosofia dal controllo ecclesiastico.[26]

C'è un'ulteriore ragione per cui Strauss contesta la critica di Cohen a Spinoza. Per Cohen, il nucleo dell'ebraismo è l'idea messianica con la quale comprende la nozione di missione universale di Israele. Cohen interpreta i profeti alla luce dell'idealismo morale di Kant. Pertanto la missione distintiva dell'ebraismo è quella di creare una cultura etica della ragione che Cohen associa al socialismo e all'idea di un progresso morale quasi infinito. L'affermazione di Spinoza secondo cui l'ebraismo era semplicemente una religione tribale non poteva che apparire “satanica” a Cohen, mentre Strauss aggiunge sardonicamente che Cohen l'avrebbe considerato non satanico ma “divino” se Spinoza avesse detto che l'unico scopo dell'ebraismo era l'istituzione e preservazione dello Stato socialista.[27]

Il successivo giudizio di Strauss sull'idea kantiano-coheniana di socialismo etico fu dispositivo:

« Cohen’s thought belongs to the world preceding World War I. Accordingly, he had a greater faith in the power of modern Western culture to mold the fate of mankind than seems warranted now. The worst things he had experienced were the Dreyfus scandal and the pogroms instigated by Czarist Russia; he did not experience Communist Russia and Hitler’s Germany. »
(Strauss, “Jerusalem and Athens,” 168)

Il risultato della critica di Strauss a Cohen è sia una rivendicazione che una condanna di Spinoza. Da un lato, Strauss esonera Cohen dall'accusa di agire per pura malizia, ma dall'altro lo fa separando completamente i principi della critica biblica di Spinoza dalle fonti e dalla tradizione ebraica. Nel momento in cui il mondo ebraico si preparava a reintegrare Spinoza nel canone ebraico, Strauss poteva concludere la sua critica a Cohen con la seguente dichiarazione: “The Tractatus is a Christian-European, not a Jewish event”.[28] In una sola frase, Strauss conferisce a Spinoza un cherem più potente e permanente di quanto avrebbero mai potuto offrire i rabbini di Amsterdam.

La critica di Strauss a Spinoza fu sviluppata ulteriormente in un breve saggio, “Das Testament Spinozas”, scritto nello stesso anno del terzo centenario di Spinoza.[29] Egli inizia il saggio esaminando l'accoglienza di Spinoza dalla condanna dopo la sua scomunica, alla parziale rivendicazione per mano di Mendelssohn, alla canonizzazione da parte di Moses Hess e Heinrich Heine, fino alla neutralità degli studiosi del ventesimo secolo. Strauss ammette apertamente che “Spinoza was a Jew”, ma poi prosegue chiedendo retoricamente: "But should we mention the names of other men, perhaps of equal rank with Spinoza, who were likewise born and educated as Jews, and whom scarcely any Jew would dare to remember proudly and gratefully as a Jew?"[30] Ci si potrebbe chiedere chi abbia in mente Strauss nel sollevare lo spettro di altre figure ormai dimenticate che erano di pari rango con Spinoza. Il suo punto è che non è sufficiente essere nati ed educati come ebrei per essere considerati un grande o venerabile membro della tradizione ebraica. Come dobbiamo allora comprendere Spinoza?

Non è come ebreo, ma come membro di quella “small band of superior minds” che Strauss, seguendo Nietzsche, chiama “the good Europeans” a cui Spinoza appartiene propriamente:

« To this community belong all the philosophers of the seventeenth century, but Spinoza belongs to it in a special way. Spinoza did not remain a Jew, while Descartes, Hobbes, and Leibniz remained Christians. Thus it is not in accordance with Spinoza’s wishes that he be inducted into the pantheon of the Jewish nation. Under these circumstances it seems to us an elementary imperative of Jewish self-respect that we Jews should at last again relinquish our claim on Spinoza. By so doing, we by no means surrender him to our enemies. Rather, we leave him to that distant and strange community of “neutrals” whom one can call, with considerable justice, the community of the “good Europeans.” »
(Strauss, “The Testament of Spinoza,” 220[31])

Strauss andò oltre decostruendo la presunta influenza di Spinoza sulla creazione del movimento sionista. Spinoza era stato celebrato negli ambienti ebraici come il fondatore del sionismo sulla base della sua affermazione secondo cui, se i fondamenti della loro religione non avessero “effeminated their mind”, sarebbe stato ancora possibile ricreare uno Stato ebraico, “so changeable are human affairs, and thus gain God’s election a second time”.[32] Considerando il riferimento di Spinoza all'elezione di Dio come niente più che una “empty phrase”, Strauss sostiene, sulla base di questo passo, che sarebbe “rischioso” assegnare a Spinoza un ruolo privilegiato nel movimento sionista. Spinoza non appoggia tanto la creazione di uno Stato ebraico quanto la considera una condizione di possibilità (Möglichkeitsbedingung). Strauss scrive: "As if condescending from the height of his philosophical neutrality, he leaves it to the Jews to liberate themselves from their religion and thus to obtain for themselves the possibility of reconstituting their state".[33]

Strauss mette anche in dubbio l'affermazione di Spinoza secondo cui la perdita della sovranità ebraica era dovuta all'“ammorbidimento” o all'effeminamento della mente ebraica. Si chiede perché la stessa legge che si diceva portasse ad un indebolimento della risolutezza politica potrebbe anche essere responsabile della forza per preservare e sopravvivere anche nelle circostanze più avverse – per esempio, l'Inquisizione.[34] Proprio come il “maestro” di Spinoza, Machiavelli, aveva attribuito al cristianesimo la corruzione delle virtù romane, così Spinoza attribuisce all'ebraismo la responsabilità dell'impossibilità di creare uno Stato ebraico.[35]

Qual è allora il testamento di Spinoza? Strauss distingue la sua posizione da quella dei denigratori (Cohen) e dei celebratori. Alla domanda se dobbiamo ancora venerazione a Spinoza, Strauss risponde così: "Spinoza will be venerated as long as there are men who know how to appreciate the inscription on his signet ring (caute) or, to put it plainly: as long as there are men who know what it means to utter [the word]: independence (Unabhängigkeit)".[36] L'indipendenza a cui Strauss si riferisce qui non è la libertà di vivere come ebreo, ma la libertà di vivere separatamente o al di fuori della propria comunità teologico-politica. È la libertà del filosofo.

Sionismo e Israele[modifica]

Gerusalemme significava per Strauss più di una metafora della rivelazione; rappresenta la sede spirituale e storica dell'ebraismo e del popolo ebraico. Qualunque riserva avesse avuto sulla causa dell'ortodossia, credeva che la sopravvivenza ebraica richiedesse l'esistenza di un sistema politico ebraico. L'esperienza di Weimar aveva dimostrato la necessità di uno Stato ebraico se non altro per il bene della sopravvivenza ebraica. Una volta si riferì alla fondazione dello Stato di Israele come "the only bright spot for the contemporary Jew who knows where he comes from".[37]

Strauss riferisce di essersi “convertito” al sionismo da adolescente. Ciò significava originariamente “simple, straightforward political Zionism” del tipo che si trova in Autoemanzipation [Autoemancipazione] di Pinsker e in Judenstaat [Lo Stato ebraico] di Herzl.[38] Non fu molto esplicito nei dettagli del suo coinvolgimento nel movimento sionista della sua giovinezza, anche se raccontò un memorabile incontro con Vladimir Žabotinskij (1880-1940), il fondatore dell'ala revisionista del movimento. Fin dall'inizio, tuttavia, Strauss cominciò a nutrire alcuni dubbi sulla capacità del sionismo politico di porre fine alla questione ebraica. A dire il vero, il sionismo cercò di salvare l'onore ebraico da secoli di degrado, ma lo fece sulla base di un'assimilazione propria, l'assimilazione alle norme e alla cultura del moderno stato laico. Lo slogan sionista “a state for a people, for a people without a state” dipendeva esso stesso dal mondo dell'assimilazionismo liberale da cui stava cercando di sfuggire. Lo Stato promesso non era necessariamente lo Stato di Israele, ma avrebbe potuto facilmente essere fondato in Canada o a Katmandu.

Il problema del sionismo politico era la sua incapacità di riflettere sui problemi del moderno stato laico liberale. La soluzione di Herzel alla questione ebraica fu quella di istituire una versione del moderno Stato liberale laico che potesse porre fine alla discriminazione e garantire piena uguaglianza civica agli ebrei. Il problema di tale soluzione è che mancava il collegamento con il mondo morale e spirituale degli ebrei che si cercava di salvare. Strauss espresse le sue prime preoccupazioni riguardo alla povertà di questa soluzione liberale in un saggio sul sionismo di Max Nordau (1923) apparso nel giornale Der Jude di Martin Buber:

« Zionism is a child of the nineteenth century. Instead of the “volcanic” conception of Jewish history, which orients itself by the great national catastrophes, Nordau demands a “Neptunian,” less melodramatic conception which sees in the accumulation of minor political and economic facts the cause of large revolutionary changes. Both the plight of the Jews and its alleviation lose all semblance of the miraculous. We are not dealing any more with the coming of the Messiah, but with “a long, difficult common effort” of the Jewish people. In Zionist matters, theology has no say; Zionism is purely political. »
(Leo Strauss, “Der Zionismus bei Nordau,” Gesammelte Schriften, vol. 2, Philosophie und Gesetz – Frühe Schriften, cur. Heinrich Meier (Stuttgart: Metzler, 1997), 320; trad. Michael Zank, “The Zionism of Nordau,” The Early Writings, 87)

Con una crudele parentesi, Strauss paragona l'atteggiamento di Nordau a quello del farmacista Homais in Madame Bovary, che mette le sue conoscenze scientifiche al servizio della produzione del sidro senza mai smettere di proclamare le proprie virtù personali.[39]

Nonostante i suoi dubbi, Strauss rimase fedele per tutta la vita alle conquiste del sionismo per i suoi sforzi volti a ripristinare un senso di “rispetto di sé” ebraico in un'epoca caratterizzata dall'assimilazione e dal progressivo livellamento della tradizione. Dopo aver trascorso l'anno accademico 1954-1955 presso l'Università Ebraica di Gerusalemme, Strauss inviò una lettera al settimanale conservatore The National Review protestando contro “l'animosità antiebraica” della rivista. Strauss difese i sionisti laburisti che allora governavano Israele, non perché fossero sindacalisti ma perché erano “pionieri”, come i Padri Pellegrini americani che formano l'“aristocrazia naturale” del paese. Scriveva: "The moral spine of Judaism was in danger of being broken by the so-called emancipation which in many cases had alienated them from their heritage and yet not given them anything more than merely formal equality. Political Zionism was the attempt to restore that inner freedom, that simple dignity, of which only people who remember their heritage and are loyal to their fate are capable".[40]

Il problema con il sionismo politico fu meglio rivelato dal sionismo culturale con l'affermazione che uno stato ebraico separato dalla tradizione e dalla sensibilità ebraica non sarebbe altro che un “guscio vuoto”. Ahad Ha’am (1856-1927), il fondatore dei sionisti culturali, considerava lo stato liberale laico semplicemente come una perpetuazione della condizione di “libertà esterna e servitù interna”. Uno Stato ebraico doveva essere radicato nella vivace cultura ebraica, nelle arti e nelle lettere, nella lingua e nella letteratura ebraiche. Se il sionismo politico era un prodotto del liberalismo illuminista, il sionismo culturale era un prodotto del romanticismo europeo. Interpretava l'ebraismo come una cultura che, in quanto tale, deve essere semplicemente una tra tutte le possibili culture. Il problema qui era evidente: il sionismo culturale concepiva la tradizione ebraica non come un dono divino o una rivelazione divina, ma come il prodotto della mente nazionale o del genio nazionale del popolo ebraico. Trasformando l'ebraismo in una cultura tra tante altre, il sionismo culturale non riuscì a riflettere adeguatamente sui fondamenti della sua cultura. Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che il fondamento della cultura ebraica è la fede nella rivelazione, nel dono della Torah da parte di Dio sul Monte Sinai. Questa – non la musica o la danza popolare israeliana – è la vera base della cultura ebraica. È solo quando consideriamo questo fondamento che il sionismo culturale si trasforma in sionismo religioso.[41]

Strauss non era un sionista religioso e non confuse mai per un momento la politica con la redenzione. In un passaggio enigmatico della sua conferenza “Why We Remain Jews”, sostiene che il popolo ebraico è stato scelto per dimostrare l'assenza di redenzione, che la redenzione non è possibile in questo mondo.[42] La creazione dello Stato ebraico può essere il fatto più importante nella storia ebraica dal completamento del Talmud, ma non deve essere confusa con l'avvento dell'era messianica e la redenzione di tutti i popoli. Allora qual è la funzione dello Stato ebraico? Se non deve essere inteso come uno Stato democratico puramente laico, qual è il suo scopo?

In ultima analisi, Strauss era grato allo Stato ebraico, che definiva “a blessing for all Jews everywhere regardless of whether they admit it or not”.[43] Ma lo Stato ebraico non doveva essere considerato come una soluzione alla questione ebraica. Scriveva:

« The establishment of the state of Israel, is the most profound modification of the Galut which has occurred, but it is not the end of the Galut; in the religious sense, and perhaps not only in the religious sense, the state of Israel is a part of the Galut. Finite, relative problems can be solved; infinite, absolute problems cannot be solved. In other words, human beings will never create a society which is free from contradictions. From every point of view it looks as if the Jewish people were the chosen people, at least in the sense that the Jewish problem is the most manifest symbol of the human problem, as it is a social or political problem. »
(Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion”, 230)

Brani come questo – in realtà è unico negli scritti di Strauss – richiamano alla mente Franz Rosenzweig (1886-1929), “il cui nome”, riconosce Strauss, “sarà sempre ricordato quando le persone informate parleranno di esistenzialismo”.[44] Per Rosenzweig la questione ebraica era qualcosa che in definitiva restava al di fuori della politica e della storia. L'ebraismo è depositario di certe verità rivelate e trans-storiche che non possono essere ridotte alla politica o alla cultura. Come Cohen, Rosenzweig era un appassionato antisionista. La vocazione ebraica era quella di rimanere un popolo di preghiera e di studio e di resistere alle trappole del potere politico. Il destino del popolo ebraico è sia vivere nel mondo, sia rimanerne separato come parte di un'unica comunità pattizia. La fondazione da parte di Rosenzweig della Freies Jüdisches Lehrhaus (Free Jewish House of Learning) a Francoforte, dedicata allo studio e alla traduzione dei testi ebraici tradizionali, avrebbe potuto benissimo servire da modello per la creazione di una comunità interpretativa da parte di Strauss a Chicago molti anni dopo. La pretesa da parte di Strauss di distinguersi sia da Gerusalemme che da Atene e di rimanere un attento interprete l'una dell'altra era un'eco della tesi di Rosenzweig secondo cui l'ebreo moderno è diviso tra due patrie (Zweistromland), tra fede e ragione, legge e filosofia, Deutschtum e Judentum.[45]

Il “new thinking” di Rosenzweig esercitò una profonda influenza su Strauss. Con questo termine Rosenzweig intendeva segnalare un tipo di pensiero che non fosse né filosofico né teologico, ma entrambi insieme. Il cosiddetto nuovo pensiero costituì la base sia dell'esistenzialismo ebraico di Rosenzweig che del suo opposto, l'esistenzialismo ateo di Heidegger. Quale era quello giusto? L'uso continuato da parte di Heidegger del linguaggio della caduta, della colpa e della coscienza mostrava una dipendenza inconsapevole dalle categorie teologiche. Ciò sembra rendere Rosenzweig una guida più affidabile per il nuovo modo di pensare. Tuttavia, come racconta Strauss, il nuovo modo di pensare era il prodotto delle filosofie soggettiviste di Kierkegaard e Nietzsche. Rosenzweig lasciava che fosse la propria esperienza soggettiva a determinare quali elementi dell'ortodossia avrebbe accettato o rifiutato, trasformandola così in una questione di libera scelta. Per Strauss, ciò metteva in luce l'inadeguatezza dell'approccio esperienziale di Rosenzweig alla Torah: doveva essere una questione di tutto o niente. Il nuovo pensiero rimase quindi esterno all'ortodossia quanto il vecchio pensiero. Rosenzweig lo ammise: descrisse la sua opera La Stella della Redenzione (1921) non come un libro ebraico ma come un “sistema filosofico”.[46]

C'era un ulteriore pericolo nel nuovo modo di pensare che Strauss affronta proprio alla fine della sua prefazione a Spinoza. Il tentativo di convalidare l'ortodossia sulla base della libera scelta o dell'esperienza non poteva garantire la vittoria dell'ortodossia ebraica. Poteva piuttosto convalidare solo un impegno esistenziale infondato o quello che venne chiamato “decisionismo”. Scriveva Strauss: "The victory of orthodoxy through the self-destruction of rational philosophy was not an unmitigated blessing". Temeva che il ritorno all'ortodossia non vincolata dalla ragione avrebbe sancito l'emergere di nuove forme di irrazionalismo e di oscurantismi fanatici. "Other observations and experiences confirmed the suspicion that it would be unwise to say farewell to reason" avvertiva.[47] Fu proprio questa autodistruzione della tradizione del razionalismo moderno a portare Strauss a considerare un ritorno al razionalismo ebraico medievale e premoderno.

Un ritorno all'ortodossia?[modifica]

Per approfondire, vedi Leo Strauss (en).

Sulla base della sua indagine sulle correnti del pensiero ebraico moderno – il neokantismo coheniano, il sionismo, il “nuovo pensiero” di Rosenzweig – Strauss considerava in modo nuovo il terreno dell'ortodossia. Fu in questo contesto che propose quello che a prima vista sembrò un fantastico esperimento mentale – vale a dire, il ritorno al “razionalismo medievale”, un termine coniato da Strauss per descrivere l’Illuminismo maimonideo. In cosa consisteva ciò?

La scoperta del razionalismo medievale da parte di Strauss implicò il ritorno al significato tradizionale o almeno premoderno della rivelazione. Opere come la Guida dei perplessi di Maimonide non erano libri filosofici alla maniera dell’Ethica di Spinoza o della Stella di Rosenzweig. I primi erano libri ebraici nella misura in cui accettavano il primato della rivelazione come punto di partenza assoluto. A differenza dei moderni, che considerano la rivelazione come un argomento della “filosofia della religione”, Strauss la vede come una branca della legge. Il profeta, nel suo significato originario, è un legislatore, e la profezia è la scienza più pura della legge. Il profeta è il creatore della comunità morale e politica all'interno della quale la filosofia è addirittura possibile. E scrive: "The philosopher is dependent on Revelation as truly as he is a man, for as a man he is a political being thus in need of a law".[48] Ne consegue, quindi, che la rivelazione appartiene allo studio della scienza politica. La consapevolezza di Strauss del primato della politica fu il primo frutto della sua svolta verso il razionalismo medievale.

Si sostiene spesso che la centralità accordata da Strauss alla politica fosse il risultato dell'influenza di Der Begriff des Politischen di Carl Schmitt (1923), con la sua immagine di un'umanità divisa in campi ostili di “amico e nemico” in lotta su questioni di ultima importanza.[49] Ciò è falso. Non fu attraverso Schmitt ma attraverso la lettura di Maimonide e della falasifa araba medievale che Strauss pervenne alla consapevolezza del primato del politico. Strauss lesse Maimonide innanzitutto come un platonico piuttosto che come un aristotelico. Questa distinzione, facile da trascurare, aveva profonde implicazioni. Aristotele si identifica con la completa libertà di filosofare, mentre la filosofia platonica, pur essendo anch'essa impegnata nella libertà di filosofare, si svolge sempre in un contesto legale, all'interno di una comunità vincolata dalla legge. Scrisse Strauss in un primo saggio: "Socratic questioning regarding the right way of life is a communal questioning (Zusammenfragen) regarding the right way of living together (des rechten Zusammenlebens)". La filosofia politica socratica è essenzialmente politica (“Das Fragen des Sokrates ist wesentlich politisch”).[50] Questa esigenza platonica fu soddisfatta solo dai filosofi giudeo-arabi medievali, che cercarono di giustificare la filosofia nel contesto della legge rivelata.

Da questa scoperta derivano almeno due conseguenze. La prima è la sua affermazione della differenza fondamentale tra la rivelazione come politica e la filosofia. Diversamente dal suo collega più anziano, Julius Guttmann (1880–1950), che intendeva lo scopo della rivelazione come veicolo per la comunicazione della verità, Strauss la intendeva come proclamazione della legge.[51] Ciò lo poneva profondamente in contrasto con quegli interpreti che sottolineavano l'unità, o almeno la compatibilità, di fede e ragione. L'affermazione di unità tra fede e ragione è la prova di una tendenza “tomistica” che può essere vera per il pensiero cristiano, ma non vale per gli scrittori giudeo-arabi. In effetti, la scoperta da parte di Strauss dell'affermazione di Avicenna secondo cui "the teaching of prophecy and the Divine Law is contained in [Plato’s] Laws" contiene il suo primo e decisivo sentore che teologia significa fondamentalmente teologia politica.[52]

La seconda conseguenza del ritorno di Strauss a Maimonide e all'Illuminismo medievale sembra essere meramente un problema letterario. Ciò riguarda il modo complesso e spesso ambiguo di scrivere con cui gli scrittori antichi e medievali scelsero di rivelare, o meglio nascondere, i loro insegnamenti più profondi e importanti allo sguardo pubblico. Questa dottrina dell'esoterismo o della “doppia verità” era stata certamente notata dagli studiosi predecessori di Strauss, ma nessuno le aveva accordato la centralità che Strauss le attribuiva. A differenza dell'Illuminismo moderno che si poneva il compito di eliminare i pregiudizi e minare le fondamenta, “a race in which he wins who offers the smallest security and the greatest terror” – una sorta di corsa verso l'abisso – Strauss trovò nell’Illuminismo medievale una diversa modalità di filosofia, che si proponeva non di distruggere la società ma di mantenere il ruolo politico della religione, indicando indirettamente ciò che favorisce la filosofia.[53]

Lo studio di Strauss sull'Illuminismo medievale lo portò a una nuova comprensione della politica. La parola “politica” come modificatore della filosofia può essere intesa in due modi.[54] Può designare un ramo distinto della filosofia accanto all'etica, alla logica e alla metafisica oppure può designare un attributo di tutta la filosofia. Ogni filosofo, nella misura in cui desidera comunicare agli altri, lo fa in un modo che deve tenere conto della situazione politica della filosofia, di ciò che si può dire e di ciò che deve essere nascosto. È in questo senso del termine “politica” che si può parlare del primato della filosofia politica. Tale strategia è stata intrapresa in passato in parte per la necessità di evitare persecuzioni da parte della società, ma più seriamente per il desiderio di salvaguardare la società dalle verità pericolose, persino maligne, a cui aderisce la filosofia. Gli illuministi medievali si assunsero il compito paradossale di proteggere la società da se stessi. Fu come risultato del loro modo di scrivere altamente ellittico che Strauss sviluppò una propria ermeneutica, "characterized by a scrupulous, almost pathological attention to detail, down to the smallest words and articles as containing clues to the deep structure of an author’s thought".[55]

Strauss considerava questo recupero della tradizione esoterica nell'ebraismo non solo come una scoperta storica o filologica, ma come una chiave per la sua comprensione dell'ortodossia. Per ortodossia, Strauss non intendeva la comunità Haredi dai cappelli neri che vive in sezioni di Crown Heights o Borough Park a Brooklyn. L'Ortodossia non si riferisce ai Naturei Karta (“Guardiani della Città di Gerusalemme”) o ad Agudat Yisrael, ma a una strategia “maimonidea” che professa fedeltà esteriore alla legge e alla comunità di Israele, con un impegno interiore o privato verso la filosofia e una vita di libera ricerca. Questa duplice strategia consente di mantenere il rispetto, e perfino l'amore, per la tradizione come profilassi contro le alternative dell'ateismo e dell'assimilazione. La dottrina della doppia verità rimane l'unico modo per preservare la vitalità dell'ebraismo in un mondo post-nietzscheano che richiede probità intellettuale a tutti i costi.

È quasi impossibile non leggere la concezione dell'ortodossia straussiana come intesa ad applicarla alla situazione dell'ebraismo contemporaneo. A dire il vero, esistono differenze fondamentali tra le situazioni teologico-politiche del XII secolo e quelle del XX secolo. Per citare solo l'aspetto più ovvio, non viviamo più in un mondo in cui il primato della rivelazione e l'immortalità dell'anima sono dati per scontati. Proprio per questo motivo è stata fonte di profonda costernazione per alcuni lettori il fatto che Strauss abbia deciso di imitare Maimonide adottando modalità espressive simili e praticando la stessa reticenza e deliberata cautela in un mondo completamente diverso. Perché? A cosa potrebbe servire ciò nel moderno “mondo disincantato”? La difesa dell'ortodossia da parte di Strauss come poco più che una nobile menzogna platonica – una “illusione eroica” come una volta la definì – viola l'unica regola cardinale che ci aspettiamo dai filosofi: l'onestà intellettuale.[56]

Le persone che vivono in case di vetro non dovrebbero lanciare pietre. Strauss, che provava una gioia così evidente nello smascherare gli altri, non può in tutta coscienza lamentarsi quando gli viene giocato lo stesso scherzo. La difesa dell'ortodossia come teologia civile da parte di Strauss sfugge al problema che ha così abilmente diagnosticato in altri? Il suo tentativo di trasformare l'ortodossia in una finzione giuridica soddisfa il requisito fondamentale del suo metodo ermeneutico: comprendere il pensiero del passato così come esso si intendeva? Oppure importa una sorta di neo-maimonideismo, o addirittura averroismo, nella sua comprensione dell'ortodossia? Può darsi che Gershom Scholem avesse ragione quando scrisse a Walter Benjamin a proposito della candidatura di Strauss per una cattedra di studi ebraici all'Università Ebraica dicendo: “Only three people at the very most will make use of the freedom to vote for the appointment of an atheist to a teaching position that serves to endorse the philosophy of religion".[57]

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni e Serie letteratura moderna.
  1. Leo Strauss, “Why We Remain Jews: Can Jewish Faith and History Still Speak to Us?” Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, cur. Kenneth Hart Green (Albany: SUNY Press, 1997), 312.
  2. Per alcuni tentativi di collocare Strauss in un contesto ebraico, cfr. Alan Udoff, cur., Leo Strauss’s Thought: Towards a Critical Engagement (Boulder: Lynne Rienner, 1991); Kenneth Hart Green, Jew and Philosopher: The Return to Maimonides in the Jewish Thought of Leo Strauss (Albany: SUNY Press, 1993); Kenneth L. Deutsch e Walter Nicgorski, curr., Leo Strauss: Political Philosopher and Jewish Thinker (Lanham, MD: Rowman & Littlefield, 1994); Steven B. Smith, Reading Leo Strauss: Politics, Philosophy, Judaism (Chicago: University of Chicago Press, 2006).
  3. Informazioni sulla biografia di Strauss sono state estratte da varie fonti, tra cui Leo Strauss e Jacob Klein, “A Giving of Accounts,” Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, 457–64; “Why We Remain Jews,” 311–29; e “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” Liberalism Ancient and Modern (New York: Basic Books, 1968), 224–59. In merito alla sua prefazione al libro di Spinoza, Gershom Scholem scrisse di Strauss quanto segue: “Have no doubt you have my blessing and most likely I will form with maybe five or six other readers what might hardly attain to a Hessian minyan, the only legitimate nucleus of readers for this opuscule. For you should not have any illusions that these pages will be practically impenetrable to American readers. Naturally, if an institution exists that is willing to publish it, then let it be praised. What amazes me is that you are actually prepared to put these sentences on paper.” Lettera da Scholem, 13 dicembre 1962, in Leo Strauss Gesammelte Schriften, vol. 3, Hobbes’ politische Wissenschaft und zugehörige Schriften – Briefe, cur. Heinrich Meier (Stuttgart: Metzler, 2001), 749.
  4. Intorno ai cosiddetti anni di Weimar di Strauss si è sviluppata una letteratura crescente, tra cui si veda David Biale, “Leo Strauss: The Philosopher as Weimar Jew,” Leo Strauss’s Thought, 31–40; David Janssens, “Questions and Caves: Philosophy, Politics, and History in Leo Strauss’s Early Work,” The Journal of Jewish Thought and Philosophy, 10 (2000): 111–44; Michael Zank, “Introduction,” Leo Strauss: The Early Writings (1921– 1932), trad. Michael Zank (Albany: SUNY, 2002), 3–49. Analoga attenzione va rivolta agli anni newyorkesi, dove Strauss per primo perfezionò il suo modo di “close reading” e la sua attenzione alla distinzione tra antichi e moderni.
  5. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 224.
  6. Leo Strauss, Philosophy and Law: Essays Toward the Understanding of Maimonides and his Predecessors, trad. Fred Baumann (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1987), 3–20.
  7. Strauss, Philosophy and Law, 7.
  8. Leo Strauss, "On the Interpretation of Genesis", Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, 373; cfr. anche Leo Strauss, On Tyranny Including the Strauss-Kojève Correspondence, curr. Victor Gourevitch e Michael S. Roth (Chicago: University of Chicago Press, 2000) 191.
  9. Strauss, Philosophy and Law, 14.
  10. Leo Strauss, “Preface to Hobbes PolitischeWissenschaft”, Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, 453: “The reawakening of theology, which for me is marked by the names of Karl Barth and Franz Rosenzweig, appeared to make it necessary to investigate how far the critique of orthodox theology – Jewish and Christian – deserved to be victorious.” Per il risveglio di questa teologia "Counter-Enlightenment", cfr. Mark Lilla, The Stillborn God: Religion and the Modern Experiment (New York: Knopf, 2007).
  11. L'importanza di Nietzsche per Strauss è spesso riconosciuta e facilmente sopravvalutata. In una lettera a Karl Löwith, Strauss osservava: “Nietzsche so dominated and charmed me between my 22nd and 30th years that I literally believed everything I understood of him,” in “Correspondence of Karl Löwith and Leo Strauss,” Independent Journal of Philosophy 5/6 (1988): 183. I lettori che fanno affidamento su questa lettera spesso trascurano il fatto che Strauss prosegue rimproverando Löwith di non aver visto i difetti di Nietzsche. Per l'affermazione che Strauss fosse un nietzscheano segreto, cfr. Laurence Lampert, Leo Strauss and Nietzsche (Chicago: University of Chicago Press, 1996).
  12. Cfr. lettera da Strauss a Kojève (primi 1930, s.d.), On Tyranny, 222: "we have the wonderful English breakfast – the hams taste too good as to consist of pork, and therefore they are allowed by the Mosaic law according to atheistic interpretation."
  13. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 231.
  14. Cfr. Leo Strauss, “Jerusalem and Athens: Some Preliminary Reflections,” Studies in Platonic Political Philosophy, ed. Thomas Pangle (Chicago: University of Chicago Press, 1983), 147–73; “Progress or Return,” Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, 87–136; “On the Interpretation of Genesis,” 359–76.
  15. Strauss, “Progress or Return,” 116.
  16. Strauss, “Progress or Return,” 111–12.
  17. Strauss, “Jerusalem and Athens,” 165–66; Philosophy and Law, 108 dove Strauss cita Cohen: “All honor to the god of Aristotle; but he is truly not the God of Israel.”
  18. Leo Strauss, Natural Right and History (Chicago: University of Chicago Press, 1953), 74–6.
  19. Strauss, “Progress or Return,” 108–09.
  20. Strauss, “Progress or Return,” 105–06.
  21. Per recenti discussioni sull'eresia di Spinoza, cfr. Yirmiyahu Yovel, Spinoza and Other Heretics: The Marrano of Reason (Princeton: Princeton University Press, 1989); Steven B. Smith, Spinoza, Liberalism, and the Question of Jewish Identity (New Haven: Yale University Press, 1997); Steven Nadler, Spinoza’s Heresy: Immortality and the Jewish Mind (Oxford: Oxford University Press, 2004).
  22. Leo Strauss, “Introductory Essay to Hermann Cohen’s ‘Religion of Reason out of the Sources of Judaism,’” Studies in Platonic Political Philosophy, 233.
  23. Hermann Cohen, “Spinoza über Staat und Religion, Judentum und Christentum”, Jüdische Schriften, ed. Bruno Strauss (Berlin: Schwetschke, 1924), vol. 3: 360–61, 363–64, 370–72; per un ottimo resoconto della critica di Spinoza da parte di Cohen, cfr. Ernst Simon, “Zu Hermann Cohens Spinoza Auffassung,” Monatsschrift für Geschiche und Wissenschaft des Judentums 79 (1935): 181–94; Franz Nauen, “Hermann Cohen’s Perceptions of Spinoza: A Reappraisal,” AJS Review 4 (1979): 111–24.
  24. Leo Strauss, “Cohens Analyse der Bibel-Wissenschaft Spinozas,” in Gesammelte Schriften, vol. 1, Die Religionskritik Spinozas und zugehörige Schriften, cur. Heinrich Meier (Stuttgart:Metzler, 1996), 363–86; trad. Michael Zank, “Cohen’s Analysis of Spinoza’s Bible Science,” The Early Writings, 139–72.
  25. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 257.
  26. Strauss, “Cohen’s Analysis,” 143, 148, 152, 159.
  27. Strauss, “Cohen’s Analysis,” 144.
  28. Strauss, “Cohen’s Analysis,” 158.
  29. Leo Strauss, “Das Testament Spinozas,” Gesammelte Schriften, vol. 1: 414–22; trad. Michael Zank, “The Testament of Spinoza,” The Early Writings, 216–23.
  30. Strauss, “The Testament of Spinoza,” 219.
  31. la frase “good European” proviene da Friedrich Nietzsche, Beyond Good and Evil, trad. Walter Kaufmann (New York: Vintage, 1966), Preface.
  32. Baruch Spinoza, Theologico-Political Treatise, trad. Samuel Shirley (Indianapolis: Hackett, 1998), 42.
  33. Strauss, “The Testament of Spinoza,” 221.
  34. E successivamente, la Shoah.
  35. Smith, Spinoza, Liberalism, and Jewish Identity, 101–03. Naturalmente, la storia successiva e la creazione dello Stato di Israele invalida Spinoza.
  36. Strauss, “Spinoza’s Testament,” 222.
  37. Leo Strauss, “An Introduction to Heideggerian Existentialism,” The Rebirth of Classical Political Rationalism, cur. Thomas Pangle (Chicago: University of Chicago Press, 1989), 31.
  38. Strauss, “A Giving of Accounts,” 460.
  39. Strauss, “The Zionism of Nordau,” 87.
  40. Leo Strauss, “Letter to the Editor,” Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, 414.
  41. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 229–30; “Why We Remain Jews,” 319–20; per le varietà dei giudaismi messianici, cfr. Aviezer Ravitzky, Messianism, Zionism, and Jewish Religious Radicalism, trad. Michael Swirsky e Jonathan Chipman (Chicago: University of Chicago Press, 1996).
  42. Strauss, “Why We Remain Jews,” 327.
  43. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 229.
  44. Strauss, “Heideggerian Existentialism,” 28.
  45. Franz Rosenzweig, The Star of Redemption, trad. William Hallo (Notre Dame: University of Notre Dame Press, 1985), Parte 3; cfr. Paul Mendes-Flohr, German Jews: A Dual Identity (New Haven: Yale University Press, 1999), 66–88; Peter Eli Gordon, Rosenzweig and Heidegger: Between Judaism and German Philosophy (Berkeley: University of California Press, 2005), 132–41.
  46. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 237.
  47. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 256–57.
  48. Strauss, Philosophy and Law, 51; la risposta di Guttman a Strauss non fu pubblicata mentre era in vita, ma per un'utile analisi del dibattito, cfr. Eliezer Schweid, “Religion and Philosophy: The Scholarly-Theological Debate Between Julius Guttmann and Leo Strauss,” Maimonidean Studies, vol. 1, cur. Arthur Hyman (NewYork:Yeshiva University Press, 1990), 163–95.
  49. Il resoconto più approfondito del collegamento Strauss-Schmitt è di Heinrich Meier, Carl Schmitt and Leo Strauss: The Hidden Dialogue, trad. Harvey Lomax (Chicago: University of Chicago Press, 1995); l'influenza di Schmitt viene solitamente tirata fuori da coloro che vogliono infangare Strauss con il pennello del successivo nazionalsocialismo di Schmitt; per un esempio di questo, cfr. John McCormick, “Introduction” a Carl Schmitt, Legality and Legitimacy, trad. Jeffrey Seitzer (Durham: Duke University Press, 2004), xlii–xliii.
  50. Leo Strauss, “Cohen und Maimuni,” Gesammelte Schriften, vol. 2: 412; per l'importanza di questo primo lavoro per Strauss, cfr. Janssens, “Questions and Caves.” 111–44; Corine Pelluchon, Une autre raison, d’autres lumières. Essai sur la crise de la rationalité contemporaine (Parigi: Vrin, 2005), 129–57.
  51. Strauss, Philosophy and Law, 52.
  52. Strauss, Philosophy and Law, 101; Leo Strauss, The Argument and Action of Plato’s ‘Laws’ (Chicago: University of Chicago Press, 1975), 1.
  53. Strauss, “Preface to Spinoza’s Critique of Religion,” 235.
  54. Strauss, “Cohen und Maimuni,” 412–13.
  55. Rémi Brague, “Strauss and Maimonides,” Leo Strauss’s Thought, 97.
  56. Per le opinioni di Strauss sulla responsabilità sociale dei filosofi, cfr. Persecuzione and the Art of Writing (Chicago: University of Chicago Press, 1980), 17–19, 33–37; On Tyranny, 205–06.
  57. Letter to Walter Benjamin, March 29, 1935 in The Correspondence of Gershom Scholem and Walter Benjamin, 1932–1940, trad. Gary Smith & André Lefèvre (New York: Schocken, 1989), 157.
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